sabato 26 febbraio 2011

La valutazione dell'adv della settimana. CHE BANCA! CHE MANCA?


Manca, ahimè, l'intelligenza. Ma si può... L'ultimo spot per Che Banca!, ideato dalla CasiraghiGreco&, è un'apoteosi dell'autogoal.
Provate a pensare: comunico a dei risparmiatori un nuovo modo di risparmiare, come? Buttando dei soldi dalla finestra.

Ora, "buttare i soldi dalla finestra" è un modo dire universalmente risaputo che sta a significare: cacciare via il denaro, scialacquare, dissipare. Non ci vuole un grande copy o un esperto in comunicazione di Harvard per saperlo. E non ci vuole neppure tanto per evitare simili corbellerie.
Bocciata.

PRIMA DELLA MILANO DA BERE, BRUNO DE FEO.


Si svegliava la mattina con il cappuccino e la brioche portati su dal bar. Bruno De Feo, pubblicitario milanese e grafico pittore, attivo fino alla fine degli anni '60, forse non rappresenterà una pietra miliare dell'advertising italiano e neppure meneghino, ma parlare dei soliti Sanna, Pirella, Barbella, lo lascio fare ad altri.

Lo studio di Bruno era in via Durini 16. Di quel luogo ricordo poco o nulla: ero appena un bimbetto. Ma in famiglia abbiamo ancora delle gigantografie di suoi appunti scritti e schizzati rapidamente, che sono qualcosa di geniale. Quattro segni ed appare San Babila. C'è un mondo.
E le capacità manuali di un ambidestro di grande talento: poteva disegnare lo stesso profilo contemporaneamente con le due mani e fare le due metà precise e uguali.

Altro che gli art di oggigiorno. Senza computer sono morti nel visualizing. I rough? Gli schizzi da dove nascono campagne? Neanche a parlarne.
Walter Benjamin è stato un vate nel definire l'arte contemporanea come soggetta a una riproducibilità di massa. Ma questo, nella comunicazione, è ancora più vero. E in essa appare tragica la parola "serialità". Perché si arriva al seriale anche quando non si può o non si vuole esprimere con pochi abili segni dei concetti, degli stili, delle situazioni. Che razza di brainstorming si possono fare? Io stesso l'ho potuto sperimentare tutte le volte che ho lavorato in un'agenzia. Sarò un copy, ma disegno, eccome. Male, ma visualizzo. E' così che sono nate diverse mie campagne. E poi è bella la contaminazione, no? Un art che viene fuori con una frase risolutiva e il copy che ti disegna un concetto. Grande.

Bruno De Feo era un professionista completo. Con una storia di tutto rispetto. Partigiano in Jugoslavia, estimatore della rivoluzione culturale cinese, per come potevano esserlo a sinistra in quegli anni, senza certo conoscere i lati tragici di quelle vicende così lontane. Tanta ideologia, come era il clima in quegli anni.
Ma Bruno era un cane sciolto, come lo si sarebbe definito anni dopo uno spirito libero, progressista, di mente aperta. Mi spiegò tutta la seconda guerra mondiale. Fu molto meglio di qualsiasi maestro, mi fece appassionare alla storia parlandomi di indiani e cow boy.

Fu per me un autentico mentore, molto legato a mio padre Gian Paolo. Il mio GP si decise ad aprire uno studio di realizzazioni cinetelevisive in piazza Duse 1, in un bellissimo scantinato, proprio grazie a Bruno.
Delle produzioni pubblicitarie di Bruno De Feo non so nulla, ma l'aria della pubblicità la respirai lo stesso, tra lui e Lillo Perri, altro amico del mio pater e altri personaggi ancora.

Fu Italia-Germania nel giugno 1970 che fermò la sua presenza nel mondo dei viventi. S'incazzò così tanto per come giocò male l'Italia di Ferruccio Valcareggi, eppure vincente come al solito "all'italiana", che nella notte gli venne un infarto.
Forse a far schizzare palle nella rete alemanna ci sarebbero voluti dei talenti ambidestri come Bruno. E forse anche la finale col Brasile sarebbe andata diversamente. Anche la pubblicità italiana degli anni '80 e di oggidì.

martedì 22 febbraio 2011

SEMIOLOGIA DELLA PUBBLICITA'


"Cosa portare ancora in campo? Non resta a mio avviso che l'etica. Portiamo di nuovo in campo problemi etici, con tutto lo spessore cognitivo che sempre anche l'etica comporta. 1 materiali restano ovviamente, ma non piú fine a se stessi, per la loro pura novità tecnico-percettiva (estetica), bensí per la loro capacità di significare, di portare a epifania e allora di simbolizzare necessità d'autocoscienza vitali e la nostra e per ogni altra cultura."
(Arte: la destituzione della comunicazione, di Luciano Nanni, 1997)

Può essere interessante analizzare le modalità fruitive della pubblicità e della comunicazione commerciale e d'impresa in genere con gli strumenti analitici della semiologia dell'arte e dell'estetica.
In particolare riprendo gli studi fatti da Luciano Nanni (Contra dogmaticos e rivista Parol) sulla polisemia dell'opera d'arte.

In termini molto sintetici, l'arte è polisemica, ossia è oggetto di interpretazione. Ognuno a un'opera d'arte dà il significato che vuole o che può, in base alla sua cultura, al periodo storico in cui vive, al suo ambiente e al contesto in cui l'opera stessa si trova. Parlo di arte contemporanea e non, per esempio di arte medievale, in cui la polisemia era chiusa, monosemica.
Ecco, la comunicazione in generale, se non è operazione artistica, è monosemica è una trasmissione autoreferenziale di messaggi, di cui la loro interpretazione ha una funzionalità bivalente, quindi doppiamente univoca. Esempio è il dialogo tra persone, un dibattito: ogni ambito di comunicazione dove esiste un confronto paritario.

Nella comunicazione pubblicitaria invece, questa monosemia perde la bidirezionalità. I significati dei messaggi che lancia sono finalizzati a una vendita, ma questo non basta a definirla. La relazione tra emittente e ricevente è univoca e unidirezionale Questo è il cuore della questione.
La pubblicità è fatta di azioni precise inequivocabili. Anzi, più inequivocabili sono, meglio è, poiché ciò significa che il messaggio ha colto il suo obiettivo, ha assolto alla sua funzione. Da parte dell'emittente pubblicitario lo scopo è quello di vendere. Da parte el consumatore di consumare atraverso un'azione di acquisto.

Non così è per l'arte. Ovviamente senza cosiderare la sua funzionalità intrinseca di vendita, di promozione dell'autore. Prendo l'opera puramente per la sua funzione fruitiva, in quanto opera d'arte, che significa se stessa in quanto tale, opera come meta-significato convenzionale tra artista e pubblico.
Un'opera d'arte che è già tale, ma solo in latenza, a partire dall'intenzione dell'autore di porla al pubblico come tale, ma che per essere socialmente opera d'arte deve vivere (significata da altri) in una koiné, ossia in una comunità linguistico-culturale, deve essere fruibile. La polisemia diviene centrale, il fruitore è un soggetto attivo, in un'attività interpretativa che è cosa ben diversa da una ricezione univoca.

Luciano Nanni, a questo punto descrive la fine della costruzione tecnica, come elemento portante e costitutivo di un'opera d'arte e, alla fine del percorso storico dell'arte, ascrive a questa un valore etico come elemento primario distintivo, come qualità di un'operazione artistica.

La comunicazione invece, fin dall'inizio è monosemica. Ossia la sua significazione viaggia su rotaie, non prende direzioni inattese. La creatività, l'ingegno seguono questi binari predefiniti: partono dal pubblicitario che crea la campagna e arrivano al consumatore che la fruisce senza tanti equivoci interpretativi.
Non è dunque solo una questione di funzionalità a rendere la pubblicità monosemica, a significazione univoca. Entrambe, come operazioni finalizzate a trarre profitto dall'ingegno e dall'opera che ne è il prodotto, sono sottoposte a un processo di mercificazione (ma questo è un altro discorso, che presupporrebbe altri approfondimenti, "chiedendo aiuto" a Baudrillard).

Se la comunicazione in generale è auto-comunicazione, ossia presa da sola, senza luoghi di scambio e condivisione non è comunicazione ma emissione di frasi e segni fini a loro stessi (rimando ancora all'articolo di Nanni citato all'inizio), la comunicazione pubblicitaria invece perde anche quella valenza di polisemia chiusa, ossia di range definita di significati possibili, data dai luoghi e dai contesti in cui essa si manifesta. Perché può prodursi solo nei luoghi in cui è deputata a esistere: ossia negli ambiti cognitivi e fisici della pubblicità.

Quindi potremmo parlare di tre livelli in cui la comunicazione agisce. Livello polisemico, ossia ambito dell'arte / livello monosemico aperto, quello di una comunicazione mediata dai contesti di fruizione, che poi è il campo delle differenze culturali e quindi dei conflitti nell'interpretazione, tra emittente e ricevente, ruoli che spesso si ribaltano poiché interscambiabili e bivalenti / e per terzo livello quello monosemico chiuso, dove esiste un emittente e un ricevente e lo scambio è unidirezionale, non interscambiabile, dove esistono contesti predefiniti e convenzionalmente accettati dalle parti.

In definitiva, si può dire che la comunicaziona pubblicitaria sia l'ambito ideologico per eccellenza, a partire da una grammatica stessa del suo prodursi.
Quindi il creativo pubblicitario si muove in un ambito ideologico che ha il sapore di una "galera espressiva", a differenza dell'artista. Entrambi agiscono in funzione di un mercato e non hanno poi in definitiva ampi spazi di creazione libera. Ma il creativo, a differenza dell'artista che ricerca la novità e la rottura con quanto fatto in precedenza, ricerca la novità all'interno di schemi ideologici e di luoghi comuni inevitabili, che lo facciano "andare sul sicuro".

Ecco spiegati i limiti espressivi della pubblicità. Per cui, quando un creativo opera una vera rottura stilistica, ma non solo formale, anche di contenuti, nasce la così detta genialata, quelle pubblicità che passano alla storia. Ma sono solo eccezioni di una regola che norma un universo espressivo monocorde. Per caprilo, basta solo accendere la tv.

Anche il creativo pubblicitario deve essere in grado di operare rotture forti, mediando con il cliente (grande vincolo, ben peggiore del committente d'opera d'arte, che lascia spazio, a volte "deleghe in bianco"). E ben per questo deve avere molto più coraggio dell'artista. Perché il pubblicitario è imprigionato nella coscienza collettiva, nella morale comune, nei canoni estetici dominanti, nei codici di disciplina della comunicazione, prima ancora che negli obiettivi di campagna.

Non sempre poi le rotture sono "rivoluzionarie". Gira in questi giorni un poster d un'azienda di fashion che mostra una ragazza vista dal basso senza mutande. In questo caso non c'è nulla di dirompente. L'uso banale e del corpo femminile è "geniale" e "di rottura" come i calendari erotici da officina. Non c'è nulla di trasgressivo, anzi. Rientra nei canoni classici dell'immaginario del maschio medio.
Esempi di rotture rivoluzionarie possono essere le campagne Benetton di Toscani, ma solo le prime. Perché poi, tutto diviene reiterazione del gesto assimilato nel mare conformista dei luoghi comuni.

lunedì 21 febbraio 2011

Buongiorno a tutti! Iniziamo con alcune riflessioni sulla comunicazione etica.

Questo blog vuole essere un laboratorio di analisi della comunicazione aperto a ogni tipo di contributo e confronto.
Lavoro da anni nella comunicazione come copywriter e come director di video e multimediali aziendali.
Ultimamente mi sto dedicando alla comunicazione etico-sociale per il terzo settore, le pubbliche amministrazioni e per un'imprenditoria che ha come core business servizi e prodotti eco-compatibili.

Un diverso modo di produrre e di consumare presuppone, infatti, un diverso modo di comunicare. La pubblicità italiana muove i primi passi in questo ambito ed è importante comprendere il primo vero cambiamento: la comunicazione etico-sociale non parla a consumatori ma a cittadini che devono essere informati.
Ciò non significa confezionare prodotti di comunicazione privi di impatto o di creatività. La scommessa è proprio questa: come creare attenzione, come sorprendere, senza essere i soliti imbonitori.

Un altro aspetto importante è la necessità di comunicare concetti spesso complessi e comunque non immediati. Per fare un esempio: la gente sa che cos'è un capo d'abbigliamento biologico? Per definirlo occorre parlare della sua filiera virtuosa, certificata. Per le merceologie convenzionali basta un'headline e poi non importa parlare di cose che sono già nel sapere comune. Per un prodotto innovativo invece occorre unire sintesi ed efficacia nel far comprendere plus e benefit.

E' in questo scenario non facile che si inserisce la professionalità dei comunicatori specializzati in concept etici.
Se siete delle imprese eco-sostenibili, ponetemi pure delle domande. Possiamo parlarne. Contattatemi.