sabato 15 ottobre 2011

CREATIVITA' IN... MOVIMENTO


Sono tanti ormai. Ma sbaglieremmo se pensassimo a questo nuovo movimento contro la dittatura finanziaria di banche, broker e troike (BCE, FMI, ecc.) come a un rendez vous dei movimenti di lotta degli ultimi decenni del secolo scorso.
Rivendicazioni semplici, logiche e registri comunicativi diretti, a volte persino geniali.
Come il manifesto riportato qui sopra, che potete trovare sul sito retedellaconoscenza.it. Un web per altro da manuale: semplice, efficace. Solo forse con un po' troppa scrittura, ma è nella sua funzione primaria, di ragionamento e narrazione di una situazione in progress e che richiede nuove visioni della realtà sociale.

A guardare il panorama deprimente del nostro settore, con adv asfittiche e prive di un qualsivoglia guizzo, consiglierei ai direttori creativi di andare a pescare nuovi copy e art proprio tra questi ragazzi. Ma per lasciare poi creare e dirigere loro. E con lauto stipendio e posizione rigorosamente non precaria.

Della serie: quando la società civile ruba il mestiere ai vecchi volponi.
Promossa a pieni voti.

sabato 1 ottobre 2011

EVASIONE FISCALE? SOLO I PICCOLI!



Nella nuova campagna, di comunicazione istituzionale sull’evasione fiscale commissionata dall’Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell’Economia all’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi (della multinazionale Publicis Groupe), c'è uno spot un po' di parte. Anzi, molto di parte. E' quello del parassita.
Ora, di questo 30" hanno già scritto in tanti: http://www.tpblog.it/iap-inibito-da-spot-parassiti, http://mktgcafe.blogspot.com/2011/08/spot-contro-evasione-fiscale-cosa-ne.html, solo per citare due fonti di esperti di comunicazione.

Io vorrei piuttosto sottolineare la funzione nascosta di questo spot. E parto da una domanda: avete visto che tipo di personaggio ci propone come evasore fiscale?
Potrebbe essere un idraulico, il pizzaiolo di un take away, il gestore di un bagno a Viserba, il meccanico sotto casa. Certo, e proprio un'espressione iconografica e uno stereotipo classico di categorie, quelle del lavoro autonomo, con un elevato tasso di evasione. Categorie che, guarda caso, rappresentano le fasce di reddito medio, medio-basso, quelle partite IVA, che insieme al lavoro dipendente, sono la massa centrale del prelievo fiscale nel nostro paese.
Queste vengono attaccate e criminalizzate dallo spot. Sono i Tore Caputo, i Gigi Fornasin, i Delfo Gualandi, i Lino Brambilla, il vicino di casa maraglio e con la barba incolta, che ci fa pensare a mani sporche di grasso, al registratore di cassa un po' unto, alla tuta con la chiave inglese infilata nel tascone sdrucito. Manca la sigaretta dietro l'orecchio.

Lungi da me il fare una difesa d'ufficio verso chiunque evada le tasse, anche solo per necessità (e sono tanti purtroppo, con il sistema fiscale di merda che abbiamo e l'inesistenza di ammortizzatori sociali e servizi che abbiamo in cambio), però mi sorge una seconda domanda, e concedetemela anche se retorica: ma uno in giacca e cravatta, con l'aria furba e strafottente, un po' bocconiano, manageriale, da barca a Porto Cervo e conto a Montecarlo, con Rolex al polso e fuoriserie alla Tulliani, no?

E' accertato dai più autorevoli fiscalisti ed esperti in economia, che la più grande quota di evasione fiscale riguarda le aziende off-shore, le scatole cinesi, il grande capitale che opera a livello internazionale. E solo in terza battuta arriva lo scontrino di cassa non emesso, la nota a matita dell'elettricista, gli euro a due cifre e buonanotte messi in tasca a lavoro finito. Pratiche micro-criminose e da sanzionare senza pietà.
Ma che arrivano dopo i miliardi di nero fatti dalle grandi imprese con un indotto che ha devastato interi distretti artigianali, vedi le poltrone a Forlì, o il tessile a Prato, Carpi, Biella, dopo i miliardi sporchi delle mafie, che finiscono a imbuto nel mare magnum della finanza "pulita".


Sono queste le vere categorie protette, vero?

Non sarà colpa dell'agenzia ma del cliente con il suo brief a senso unico, tuttavia lo spot lo boccio.

domenica 28 agosto 2011

E ADESSO PARLIAMO UN PO' DI ME. /2



Da tre anni sto curando la corporate e la comunicazione di un'azienda che progetta, produce e commercializza abbigliamento biologico: Kayo Ebisu.
Insieme al preziosissimo apporto dello Studio Maccentelli, alias GianMatteo brother, ho sviluppato il logo, l'immagine coordinata, la grafica del sito, tutto il btl e la gestione sui social network.
Siamo nel campo della comunicazione etica, dove i valori sono essenziali. E non sto semplicemente parlando di benefit di prodotto salutistici, bensì di un'etica che rappresenta la conditio sine qua non dell'identità di marca. Dove il concept è destinato a figure psicografiche ben definite. Un mercato di nicchia altamente verticale, che va affrontato non certo con gli obici pesanti del mass market.

Questo lavoro di marketing e comunicazione si è integrato con la richiesta da parte del cliente di vivere l'azienda come in un rapporto simbiotico.
Molte agenzie parlano di "lancio del prodotto". Anche l'ultima nella quale ho lavorato (di cui non faccio il nome per correttezza), per anni ha avuto sempre lo stesso ritornello autopromozionale: lanciamo il prodotto. Di lanci ne ho visti pochi. A parte una magnifica operazione di direct a cui ho partecipato... ma mi fermo qua. Lascio i lor signori ai piccoli guru e alla ricerca di talenti.

Bene, non mi era mai capitato di gestire direttamante il lancio di un prodotto, figuriamoci un'azienda. Ma l'ho fatto. Sin dalla sua nascita, ne ho seguito l'architettura in tutta la fase di start up, creando interesse istituzionale. Ciò ha portato a stanziamenti di microcredito. Poi ancora, è arrivata prima nel Mambo 2009 del Comune di Bologna, aprendo una showroom in centro. Questo nonostante la crisi e un cambio di core business al volo, una virata che solo una piccola piroga veloce può fare: dal btb del wellness al btc con test di prodotto. Tutto questo a budget ridicolo!

Non sarei qui a scrivere se non avessi visto i risultati giorno per giorno. Oggi la Kayo Ebisu è nel Board di Presidenza di Federmoda Bologna. D'accordo, l'azienda... e il lancio del prodotto? Beh, attualmente partiamo dalla creazione ex novo di una linea che rischia di essere il frutto del meglio che Bologna possa esprimere: la creatività scientifica di chi fa ricerca all'Alma Mater e l'eccellenza del made in Italy. Ovviamente insieme alla qualità bio. E' di questi mesi il lavoro di ricerca con uno spinoff universitario per la realizzazione di un tessuto altamente innovativo. Naturalmente con lo studio del marchio della nuova linea, dei mercati, dei canali e del posizionamento del prodotto.

E ADESSO PARLIAMO UN PO' DI ME. /1


Questo sono io, a Milano in viale Legnone. Quasi 22 anni fa. Ero alle prese con la produzione Maccentelli dello spot Caffè Arabesco. Cliente Torrisi, agenzia (portata da noi al cliente) Gariboldi Parisi Verga Int.
Gli studi erano della Film Studio 80, quella che oggi è la Harold & Motion Pictures SpA. Il regista Raffaello Iacomelli, fotografia Giorgio Fantini.

Per l'agenzia, che ne aveva ben donde per clienti più importanti, fu un "mirabile" esempio di "ti prendo il clientuzzo" e ti confeziono un concept creativo buono buono e giusto giusto per andare a fare una bella vasca a Cannes. Tipico esempio di utilizzo del cliente per altri fini. La storia era esilarante: un incrocio tra un ridolini post moderno e un Calogero Cera Grey che tira martellate in testa per testare il caffè. Ma forse il copy test andava fatto sul serio.
Tecnicamente il lavoro fu ottimo e Francesco Torrisi, un carissimo amico, rimase soddisfatto.
Ma il concept, a considerare l'area Nielsen 4: Sicilia e un po' di Calabria, non c'entrava una beata minchia. Baciamo le mani.

sabato 27 agosto 2011

PUBBLICITARIO, PROFESSIONE...BOH?



Le banalità come questa qui sopra, alla getty images, art che non sanno fare un rough a mano, il copia-incolla concettuale, iconorafie dei luoghi comuni, la pubblicità italiana è diventata proprio dozzinale, scialba. In altre parole, priva di una vita propria.

Mi ricordo che già nell''83, a Venezia, l'unico anno in cui si svolse il festival del cinema pubblicitario nella città della laguna (per il resto Cannes forever), gli italiani avevano poco o nulla da esprimere.
Ma allora si poteva parlare ancora di tempi d'oro. L'era dei guru che non è mai morta., per loro Guru indiscutibili, alla Pirella e Sanna. E guretti che non facevano i profeti in patria: lo erano fuori da Milano. Li vedi approdare ancora oggi in città come Bologna, lustrati da campagne fortunose vecchie di lustri.

Diciamolo, non è stata la crisi e le colpe del mercato drogato da Berlusconi. E neppure l'ignoranza del cliente. Ad abbassare la qualità del prodotto adv e affini è stata la precarizzazione delle professionalità.
Tutti vogliono il think tank per la speculativa, la gara, la campagnaccia strappata tra venti cani azzannanti. Ma il think tank, può anche essere un genialoide, tuttavia non è mai stato o è stato poco in un'agenzia. E questo vale anche per le coppie.
Improvvisazione, partite IVA onerose (siamo in Italia, non in UK dove le congeli), battaglie al ribasso, pagamenti al mese del mai. Ci vuole un gran coraggio per mantenere la passione nel fare le cose.

Una volta si era nomadi. Tre anni al massimo alla Grey e poi via, alla Lintas. Così nascevano e si formavano i creativi, le professionalità, soprattutto i copy e gli art. Ma non era un nomadismo vero. Nelle agenzie c'eri. Semplicemente le giravi, le cambiavi. E loro cambiavano te, arricchendo il tuo bagaglio professionale e culturale. Su Strategia, rivista di advertising, la rubrica "si alzano e si siedono" era lunga come il dizionario Devoto Oli. E l'agenzia in sé era una grande scuola di manager della comunicazione.

Oggi non è più così. Oggi sei fuori e basta. E se hai la fortuna di essere dove sei, fai di tutto per restarci. La colpa? La politica degli imprenditori d'agenzia sulle risorse umane. Le agenzie sono state tra i primi soggetti aziendali a precarizzare i lavoratori della comunicazione, a esternalizzare e ad abbassare prezzi.
Risultato? Sotto gli occhi di tutti.

E i guru travet, i lumpen della nostalgia per i bei tempi andati, direttori creativi del ce riprovamo, continuano a pontificare su chi va bene e chi no. Spesso solo per convenienza personale.

Squallor.

martedì 29 marzo 2011

PRIMA DELLA MILANO DA BERE/2, LE UOVA DI PIERO.



"Gian Paolo, vieni che metto a bollire le uova!"
Poteva essere la telefonata d'un amico che ne invitava un altro a consumare un pranzo, a dire il vero un po' frugale. E in effetti di amici si trattava. Ma l'oggetto della proposta che ricevette mio padre in una giornata di luglio del 1960 fu l'assistere e il documentare la nascita di una delle opere più geniali dell'amico Piero Manzoni, artista noto anche ai profani per la "merda d'artista".

Allora, il trentenne Gian Paolo Maccentelli era un cineoperatore del Cinegionale SEDI e gli artisti, tra pittori, scultori e concettuali vari, erano più che altro interlocutori per fare pezzi di colore, tra l'apertura dell'ultima Fiera Campionaria e l'inaugurazione di qualche infrastruttura ad opera del democristiano di turno.

Tra i vari artisti, Gian Paolo ebbe modo di documentare in modo pittoresco e comico anche opere di Fontana. Ma non aggiungo altro. Lascio parlare G.P. in questo video. Chi meglio di lui può raccontare quella straordinaria epopea dei cinegiornali?

Ci sono ancora per casa foto di GP con la sua Arriflex 35 mm: una bestia di svariati chili da portare a spalla, a cui andava aggiunta la batteria. E foto di tanti pezzi girati sul momento, cotti e mangiati. Come le uova di Piero.


sabato 5 marzo 2011

La valutazione della settimana. DEPRESSIONE POST-PARTO ANCHE NELL'ADV.



Il parto di questa adv della Lowe Pirella Fronzoni poteva essere forse più gioioso. Perché l'idea in sé non era neppure male, ma è scialbo il visual, che sarebbe potuto essere più giocato. Un bambino con la bocca sporca di pappa è un fatto del tutto usuale, anzi, magari addirittura un elemento che alla mamma aggiunge stress a stress... e puliscilo... e puliscilo ancora.... ha sputato di nuovo...

Deprimente.

sabato 26 febbraio 2011

La valutazione dell'adv della settimana. CHE BANCA! CHE MANCA?


Manca, ahimè, l'intelligenza. Ma si può... L'ultimo spot per Che Banca!, ideato dalla CasiraghiGreco&, è un'apoteosi dell'autogoal.
Provate a pensare: comunico a dei risparmiatori un nuovo modo di risparmiare, come? Buttando dei soldi dalla finestra.

Ora, "buttare i soldi dalla finestra" è un modo dire universalmente risaputo che sta a significare: cacciare via il denaro, scialacquare, dissipare. Non ci vuole un grande copy o un esperto in comunicazione di Harvard per saperlo. E non ci vuole neppure tanto per evitare simili corbellerie.
Bocciata.

PRIMA DELLA MILANO DA BERE, BRUNO DE FEO.


Si svegliava la mattina con il cappuccino e la brioche portati su dal bar. Bruno De Feo, pubblicitario milanese e grafico pittore, attivo fino alla fine degli anni '60, forse non rappresenterà una pietra miliare dell'advertising italiano e neppure meneghino, ma parlare dei soliti Sanna, Pirella, Barbella, lo lascio fare ad altri.

Lo studio di Bruno era in via Durini 16. Di quel luogo ricordo poco o nulla: ero appena un bimbetto. Ma in famiglia abbiamo ancora delle gigantografie di suoi appunti scritti e schizzati rapidamente, che sono qualcosa di geniale. Quattro segni ed appare San Babila. C'è un mondo.
E le capacità manuali di un ambidestro di grande talento: poteva disegnare lo stesso profilo contemporaneamente con le due mani e fare le due metà precise e uguali.

Altro che gli art di oggigiorno. Senza computer sono morti nel visualizing. I rough? Gli schizzi da dove nascono campagne? Neanche a parlarne.
Walter Benjamin è stato un vate nel definire l'arte contemporanea come soggetta a una riproducibilità di massa. Ma questo, nella comunicazione, è ancora più vero. E in essa appare tragica la parola "serialità". Perché si arriva al seriale anche quando non si può o non si vuole esprimere con pochi abili segni dei concetti, degli stili, delle situazioni. Che razza di brainstorming si possono fare? Io stesso l'ho potuto sperimentare tutte le volte che ho lavorato in un'agenzia. Sarò un copy, ma disegno, eccome. Male, ma visualizzo. E' così che sono nate diverse mie campagne. E poi è bella la contaminazione, no? Un art che viene fuori con una frase risolutiva e il copy che ti disegna un concetto. Grande.

Bruno De Feo era un professionista completo. Con una storia di tutto rispetto. Partigiano in Jugoslavia, estimatore della rivoluzione culturale cinese, per come potevano esserlo a sinistra in quegli anni, senza certo conoscere i lati tragici di quelle vicende così lontane. Tanta ideologia, come era il clima in quegli anni.
Ma Bruno era un cane sciolto, come lo si sarebbe definito anni dopo uno spirito libero, progressista, di mente aperta. Mi spiegò tutta la seconda guerra mondiale. Fu molto meglio di qualsiasi maestro, mi fece appassionare alla storia parlandomi di indiani e cow boy.

Fu per me un autentico mentore, molto legato a mio padre Gian Paolo. Il mio GP si decise ad aprire uno studio di realizzazioni cinetelevisive in piazza Duse 1, in un bellissimo scantinato, proprio grazie a Bruno.
Delle produzioni pubblicitarie di Bruno De Feo non so nulla, ma l'aria della pubblicità la respirai lo stesso, tra lui e Lillo Perri, altro amico del mio pater e altri personaggi ancora.

Fu Italia-Germania nel giugno 1970 che fermò la sua presenza nel mondo dei viventi. S'incazzò così tanto per come giocò male l'Italia di Ferruccio Valcareggi, eppure vincente come al solito "all'italiana", che nella notte gli venne un infarto.
Forse a far schizzare palle nella rete alemanna ci sarebbero voluti dei talenti ambidestri come Bruno. E forse anche la finale col Brasile sarebbe andata diversamente. Anche la pubblicità italiana degli anni '80 e di oggidì.

martedì 22 febbraio 2011

SEMIOLOGIA DELLA PUBBLICITA'


"Cosa portare ancora in campo? Non resta a mio avviso che l'etica. Portiamo di nuovo in campo problemi etici, con tutto lo spessore cognitivo che sempre anche l'etica comporta. 1 materiali restano ovviamente, ma non piú fine a se stessi, per la loro pura novità tecnico-percettiva (estetica), bensí per la loro capacità di significare, di portare a epifania e allora di simbolizzare necessità d'autocoscienza vitali e la nostra e per ogni altra cultura."
(Arte: la destituzione della comunicazione, di Luciano Nanni, 1997)

Può essere interessante analizzare le modalità fruitive della pubblicità e della comunicazione commerciale e d'impresa in genere con gli strumenti analitici della semiologia dell'arte e dell'estetica.
In particolare riprendo gli studi fatti da Luciano Nanni (Contra dogmaticos e rivista Parol) sulla polisemia dell'opera d'arte.

In termini molto sintetici, l'arte è polisemica, ossia è oggetto di interpretazione. Ognuno a un'opera d'arte dà il significato che vuole o che può, in base alla sua cultura, al periodo storico in cui vive, al suo ambiente e al contesto in cui l'opera stessa si trova. Parlo di arte contemporanea e non, per esempio di arte medievale, in cui la polisemia era chiusa, monosemica.
Ecco, la comunicazione in generale, se non è operazione artistica, è monosemica è una trasmissione autoreferenziale di messaggi, di cui la loro interpretazione ha una funzionalità bivalente, quindi doppiamente univoca. Esempio è il dialogo tra persone, un dibattito: ogni ambito di comunicazione dove esiste un confronto paritario.

Nella comunicazione pubblicitaria invece, questa monosemia perde la bidirezionalità. I significati dei messaggi che lancia sono finalizzati a una vendita, ma questo non basta a definirla. La relazione tra emittente e ricevente è univoca e unidirezionale Questo è il cuore della questione.
La pubblicità è fatta di azioni precise inequivocabili. Anzi, più inequivocabili sono, meglio è, poiché ciò significa che il messaggio ha colto il suo obiettivo, ha assolto alla sua funzione. Da parte dell'emittente pubblicitario lo scopo è quello di vendere. Da parte el consumatore di consumare atraverso un'azione di acquisto.

Non così è per l'arte. Ovviamente senza cosiderare la sua funzionalità intrinseca di vendita, di promozione dell'autore. Prendo l'opera puramente per la sua funzione fruitiva, in quanto opera d'arte, che significa se stessa in quanto tale, opera come meta-significato convenzionale tra artista e pubblico.
Un'opera d'arte che è già tale, ma solo in latenza, a partire dall'intenzione dell'autore di porla al pubblico come tale, ma che per essere socialmente opera d'arte deve vivere (significata da altri) in una koiné, ossia in una comunità linguistico-culturale, deve essere fruibile. La polisemia diviene centrale, il fruitore è un soggetto attivo, in un'attività interpretativa che è cosa ben diversa da una ricezione univoca.

Luciano Nanni, a questo punto descrive la fine della costruzione tecnica, come elemento portante e costitutivo di un'opera d'arte e, alla fine del percorso storico dell'arte, ascrive a questa un valore etico come elemento primario distintivo, come qualità di un'operazione artistica.

La comunicazione invece, fin dall'inizio è monosemica. Ossia la sua significazione viaggia su rotaie, non prende direzioni inattese. La creatività, l'ingegno seguono questi binari predefiniti: partono dal pubblicitario che crea la campagna e arrivano al consumatore che la fruisce senza tanti equivoci interpretativi.
Non è dunque solo una questione di funzionalità a rendere la pubblicità monosemica, a significazione univoca. Entrambe, come operazioni finalizzate a trarre profitto dall'ingegno e dall'opera che ne è il prodotto, sono sottoposte a un processo di mercificazione (ma questo è un altro discorso, che presupporrebbe altri approfondimenti, "chiedendo aiuto" a Baudrillard).

Se la comunicazione in generale è auto-comunicazione, ossia presa da sola, senza luoghi di scambio e condivisione non è comunicazione ma emissione di frasi e segni fini a loro stessi (rimando ancora all'articolo di Nanni citato all'inizio), la comunicazione pubblicitaria invece perde anche quella valenza di polisemia chiusa, ossia di range definita di significati possibili, data dai luoghi e dai contesti in cui essa si manifesta. Perché può prodursi solo nei luoghi in cui è deputata a esistere: ossia negli ambiti cognitivi e fisici della pubblicità.

Quindi potremmo parlare di tre livelli in cui la comunicazione agisce. Livello polisemico, ossia ambito dell'arte / livello monosemico aperto, quello di una comunicazione mediata dai contesti di fruizione, che poi è il campo delle differenze culturali e quindi dei conflitti nell'interpretazione, tra emittente e ricevente, ruoli che spesso si ribaltano poiché interscambiabili e bivalenti / e per terzo livello quello monosemico chiuso, dove esiste un emittente e un ricevente e lo scambio è unidirezionale, non interscambiabile, dove esistono contesti predefiniti e convenzionalmente accettati dalle parti.

In definitiva, si può dire che la comunicaziona pubblicitaria sia l'ambito ideologico per eccellenza, a partire da una grammatica stessa del suo prodursi.
Quindi il creativo pubblicitario si muove in un ambito ideologico che ha il sapore di una "galera espressiva", a differenza dell'artista. Entrambi agiscono in funzione di un mercato e non hanno poi in definitiva ampi spazi di creazione libera. Ma il creativo, a differenza dell'artista che ricerca la novità e la rottura con quanto fatto in precedenza, ricerca la novità all'interno di schemi ideologici e di luoghi comuni inevitabili, che lo facciano "andare sul sicuro".

Ecco spiegati i limiti espressivi della pubblicità. Per cui, quando un creativo opera una vera rottura stilistica, ma non solo formale, anche di contenuti, nasce la così detta genialata, quelle pubblicità che passano alla storia. Ma sono solo eccezioni di una regola che norma un universo espressivo monocorde. Per caprilo, basta solo accendere la tv.

Anche il creativo pubblicitario deve essere in grado di operare rotture forti, mediando con il cliente (grande vincolo, ben peggiore del committente d'opera d'arte, che lascia spazio, a volte "deleghe in bianco"). E ben per questo deve avere molto più coraggio dell'artista. Perché il pubblicitario è imprigionato nella coscienza collettiva, nella morale comune, nei canoni estetici dominanti, nei codici di disciplina della comunicazione, prima ancora che negli obiettivi di campagna.

Non sempre poi le rotture sono "rivoluzionarie". Gira in questi giorni un poster d un'azienda di fashion che mostra una ragazza vista dal basso senza mutande. In questo caso non c'è nulla di dirompente. L'uso banale e del corpo femminile è "geniale" e "di rottura" come i calendari erotici da officina. Non c'è nulla di trasgressivo, anzi. Rientra nei canoni classici dell'immaginario del maschio medio.
Esempi di rotture rivoluzionarie possono essere le campagne Benetton di Toscani, ma solo le prime. Perché poi, tutto diviene reiterazione del gesto assimilato nel mare conformista dei luoghi comuni.

lunedì 21 febbraio 2011

Buongiorno a tutti! Iniziamo con alcune riflessioni sulla comunicazione etica.

Questo blog vuole essere un laboratorio di analisi della comunicazione aperto a ogni tipo di contributo e confronto.
Lavoro da anni nella comunicazione come copywriter e come director di video e multimediali aziendali.
Ultimamente mi sto dedicando alla comunicazione etico-sociale per il terzo settore, le pubbliche amministrazioni e per un'imprenditoria che ha come core business servizi e prodotti eco-compatibili.

Un diverso modo di produrre e di consumare presuppone, infatti, un diverso modo di comunicare. La pubblicità italiana muove i primi passi in questo ambito ed è importante comprendere il primo vero cambiamento: la comunicazione etico-sociale non parla a consumatori ma a cittadini che devono essere informati.
Ciò non significa confezionare prodotti di comunicazione privi di impatto o di creatività. La scommessa è proprio questa: come creare attenzione, come sorprendere, senza essere i soliti imbonitori.

Un altro aspetto importante è la necessità di comunicare concetti spesso complessi e comunque non immediati. Per fare un esempio: la gente sa che cos'è un capo d'abbigliamento biologico? Per definirlo occorre parlare della sua filiera virtuosa, certificata. Per le merceologie convenzionali basta un'headline e poi non importa parlare di cose che sono già nel sapere comune. Per un prodotto innovativo invece occorre unire sintesi ed efficacia nel far comprendere plus e benefit.

E' in questo scenario non facile che si inserisce la professionalità dei comunicatori specializzati in concept etici.
Se siete delle imprese eco-sostenibili, ponetemi pure delle domande. Possiamo parlarne. Contattatemi.