martedì 22 febbraio 2011

SEMIOLOGIA DELLA PUBBLICITA'


"Cosa portare ancora in campo? Non resta a mio avviso che l'etica. Portiamo di nuovo in campo problemi etici, con tutto lo spessore cognitivo che sempre anche l'etica comporta. 1 materiali restano ovviamente, ma non piú fine a se stessi, per la loro pura novità tecnico-percettiva (estetica), bensí per la loro capacità di significare, di portare a epifania e allora di simbolizzare necessità d'autocoscienza vitali e la nostra e per ogni altra cultura."
(Arte: la destituzione della comunicazione, di Luciano Nanni, 1997)

Può essere interessante analizzare le modalità fruitive della pubblicità e della comunicazione commerciale e d'impresa in genere con gli strumenti analitici della semiologia dell'arte e dell'estetica.
In particolare riprendo gli studi fatti da Luciano Nanni (Contra dogmaticos e rivista Parol) sulla polisemia dell'opera d'arte.

In termini molto sintetici, l'arte è polisemica, ossia è oggetto di interpretazione. Ognuno a un'opera d'arte dà il significato che vuole o che può, in base alla sua cultura, al periodo storico in cui vive, al suo ambiente e al contesto in cui l'opera stessa si trova. Parlo di arte contemporanea e non, per esempio di arte medievale, in cui la polisemia era chiusa, monosemica.
Ecco, la comunicazione in generale, se non è operazione artistica, è monosemica è una trasmissione autoreferenziale di messaggi, di cui la loro interpretazione ha una funzionalità bivalente, quindi doppiamente univoca. Esempio è il dialogo tra persone, un dibattito: ogni ambito di comunicazione dove esiste un confronto paritario.

Nella comunicazione pubblicitaria invece, questa monosemia perde la bidirezionalità. I significati dei messaggi che lancia sono finalizzati a una vendita, ma questo non basta a definirla. La relazione tra emittente e ricevente è univoca e unidirezionale Questo è il cuore della questione.
La pubblicità è fatta di azioni precise inequivocabili. Anzi, più inequivocabili sono, meglio è, poiché ciò significa che il messaggio ha colto il suo obiettivo, ha assolto alla sua funzione. Da parte dell'emittente pubblicitario lo scopo è quello di vendere. Da parte el consumatore di consumare atraverso un'azione di acquisto.

Non così è per l'arte. Ovviamente senza cosiderare la sua funzionalità intrinseca di vendita, di promozione dell'autore. Prendo l'opera puramente per la sua funzione fruitiva, in quanto opera d'arte, che significa se stessa in quanto tale, opera come meta-significato convenzionale tra artista e pubblico.
Un'opera d'arte che è già tale, ma solo in latenza, a partire dall'intenzione dell'autore di porla al pubblico come tale, ma che per essere socialmente opera d'arte deve vivere (significata da altri) in una koiné, ossia in una comunità linguistico-culturale, deve essere fruibile. La polisemia diviene centrale, il fruitore è un soggetto attivo, in un'attività interpretativa che è cosa ben diversa da una ricezione univoca.

Luciano Nanni, a questo punto descrive la fine della costruzione tecnica, come elemento portante e costitutivo di un'opera d'arte e, alla fine del percorso storico dell'arte, ascrive a questa un valore etico come elemento primario distintivo, come qualità di un'operazione artistica.

La comunicazione invece, fin dall'inizio è monosemica. Ossia la sua significazione viaggia su rotaie, non prende direzioni inattese. La creatività, l'ingegno seguono questi binari predefiniti: partono dal pubblicitario che crea la campagna e arrivano al consumatore che la fruisce senza tanti equivoci interpretativi.
Non è dunque solo una questione di funzionalità a rendere la pubblicità monosemica, a significazione univoca. Entrambe, come operazioni finalizzate a trarre profitto dall'ingegno e dall'opera che ne è il prodotto, sono sottoposte a un processo di mercificazione (ma questo è un altro discorso, che presupporrebbe altri approfondimenti, "chiedendo aiuto" a Baudrillard).

Se la comunicazione in generale è auto-comunicazione, ossia presa da sola, senza luoghi di scambio e condivisione non è comunicazione ma emissione di frasi e segni fini a loro stessi (rimando ancora all'articolo di Nanni citato all'inizio), la comunicazione pubblicitaria invece perde anche quella valenza di polisemia chiusa, ossia di range definita di significati possibili, data dai luoghi e dai contesti in cui essa si manifesta. Perché può prodursi solo nei luoghi in cui è deputata a esistere: ossia negli ambiti cognitivi e fisici della pubblicità.

Quindi potremmo parlare di tre livelli in cui la comunicazione agisce. Livello polisemico, ossia ambito dell'arte / livello monosemico aperto, quello di una comunicazione mediata dai contesti di fruizione, che poi è il campo delle differenze culturali e quindi dei conflitti nell'interpretazione, tra emittente e ricevente, ruoli che spesso si ribaltano poiché interscambiabili e bivalenti / e per terzo livello quello monosemico chiuso, dove esiste un emittente e un ricevente e lo scambio è unidirezionale, non interscambiabile, dove esistono contesti predefiniti e convenzionalmente accettati dalle parti.

In definitiva, si può dire che la comunicaziona pubblicitaria sia l'ambito ideologico per eccellenza, a partire da una grammatica stessa del suo prodursi.
Quindi il creativo pubblicitario si muove in un ambito ideologico che ha il sapore di una "galera espressiva", a differenza dell'artista. Entrambi agiscono in funzione di un mercato e non hanno poi in definitiva ampi spazi di creazione libera. Ma il creativo, a differenza dell'artista che ricerca la novità e la rottura con quanto fatto in precedenza, ricerca la novità all'interno di schemi ideologici e di luoghi comuni inevitabili, che lo facciano "andare sul sicuro".

Ecco spiegati i limiti espressivi della pubblicità. Per cui, quando un creativo opera una vera rottura stilistica, ma non solo formale, anche di contenuti, nasce la così detta genialata, quelle pubblicità che passano alla storia. Ma sono solo eccezioni di una regola che norma un universo espressivo monocorde. Per caprilo, basta solo accendere la tv.

Anche il creativo pubblicitario deve essere in grado di operare rotture forti, mediando con il cliente (grande vincolo, ben peggiore del committente d'opera d'arte, che lascia spazio, a volte "deleghe in bianco"). E ben per questo deve avere molto più coraggio dell'artista. Perché il pubblicitario è imprigionato nella coscienza collettiva, nella morale comune, nei canoni estetici dominanti, nei codici di disciplina della comunicazione, prima ancora che negli obiettivi di campagna.

Non sempre poi le rotture sono "rivoluzionarie". Gira in questi giorni un poster d un'azienda di fashion che mostra una ragazza vista dal basso senza mutande. In questo caso non c'è nulla di dirompente. L'uso banale e del corpo femminile è "geniale" e "di rottura" come i calendari erotici da officina. Non c'è nulla di trasgressivo, anzi. Rientra nei canoni classici dell'immaginario del maschio medio.
Esempi di rotture rivoluzionarie possono essere le campagne Benetton di Toscani, ma solo le prime. Perché poi, tutto diviene reiterazione del gesto assimilato nel mare conformista dei luoghi comuni.

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